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Esposizione universale: da Parigi a Milano

Mancano meno di 100 giorni all’inizio dell‘Expo di Milano dal titolo “Nutrire il pianeta, Energia per la vita”. Cosa dobbiamo aspettarci? Quando nasce l’Esposizione Universale? E perché? Scopriamolo insieme!

Esposizione Universale: caratteristiche fondamentali

Esposizione Universale è il termine generico che indica le grandi esposizioni tenutesi fin dalla metà dell’Ottocento. Per lungo tempo questo termine è stato associato indiscriminatamente a qualsiasi esposizione di carattere internazionale. Nel 1928 il Bureau International des Expositions ha provveduto a classificare le Esposizioni sulla base di regole precise rispetto alla durata, alla frequenza e alle responsabilità riguardo l’organizzazione dei padiglioni. Finora sono entrati in vigore tre diversi protocolli.

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“Tour Eiffel et le Globe Céleste” Credited to Neurdein Frères. Con licenza Pubblico dominio tramite Wikimedia Commons

Dal 1931 fino al 1980, vennero riconosciuti due tipi di Expo: L’Esposizione Generale o Universale e l‘Esposizione Specializzata o Internazionale.

Con il protocollo del 1972 si dette vita alla seconda fase, che codificava solo due tipi di esposizioni: l’Esposizione Internazionale Mondiale o Universale, con frequenza decennale e della durata massima di sei mesi; l’Esposizione Internazionale Specializzata, con frequenza biennale e della durata massima di sei mesi.

L’ultima fase si è aperta con il protocollo del 1988, che prevede una nuova distinzione tra l’International Registered Exhibition, detta anche Expo registrata, mondiale o Universale, organizzata ogni cinque anni con tema generale, della durata massima di sei mesi e che prevede la costruzione dei padiglioni da parte dei partecipanti, e l’International Recognised Exhibition, detta anche Expo riconosciuta o Internazionale, della durata massima di tre mesi e costruzione dei padiglioni a carico degli organizzatori.

Le Esposizioni avevano come obiettivo quello di esporre e di mettere in scena un universo spettacolarizzato, metafora del progresso universale. Ogni nazione esponeva ciò che di migliore aveva da offrire sul piano dell’innovazione scientifica e tecnologica.

 

Dall’edizione del 1900 tenutasi a Parigi viene portata a termine la trasformazione dell’Esposizione in metafora di un processo ormai staccato dalla sua base materiale, ossia la tecnologia. Le Esposizioni diventano una macchina propagandistica che vuole sedurre più che informare, «luoghi di pellegrinaggio al feticcio merce» come affermava Benjamin.

L’Esposizione Universale: la macchina della meraviglia

Le Esposizioni Universali, luoghi in cui venivano mostrati a milioni di visitatori, i vertici delle conquiste tecnologiche, erano occasioni senza precedenti: in una realtà priva dei mezzi multimediali e virtuali ai quali siamo ormai assuefatti, osservare persone provenienti da lontani angoli del pianeta, assistere allo stravolgimento di noti luoghi pubblici della propria città sui quali i padiglioni, le cosiddette «architetture di carta» per citare una definizione di De Fusco, si ergevano in tutta la loro avveniristica stravaganza, contenenti al loro interno prototipi di macchinari e attrezzi tecnologici ideati e progettati dai più importanti ingegneri del mondo, doveva essere uno spettacolo sensazionale che oggi, probabilmente, non riuscirebbe a sortire la stessa meraviglia. L’utilizzo di questo termine, «meraviglia», ha una storia molto antica, ad esempio viene utilizzata anche da Aristotele, affermando che proprio da essa l’uomo trova lo slancio per dedicarsi alla filosofia.

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E. Thérond – Adolphe Laurent Joanne, Palazzo dell’Industria (Esposizione Universale PArigi 1855) in « Paris illustré: nouveau guide de l’étranger et du Parisien », Hachette, 1867.

 

Aristotele utilizza il termine thauma e il verbo thaumazon ma la traduzione con “meraviglia” non rende la ricchezza del greco antico, e conduce ad un restringimento di significato fuorviante. Nella lingua greca “thauma” rimanda a qualcosa di minaccioso, di inquietante: è l’angosciato stupore, lo stordimento e il terrore dell’uomo dinanzi al divenire della vita, cioè dinanzi al dolore e alla morte.

Questa suggestione semantica è affascinante, soprattutto alla luce di ciò che affermerà molti e molti secoli dopo Walter Benjamin in merito alle Esposizioni Universali.

L’Esposizione Universale vista da Walter Benjamin

Nei Passage, opera alla quale Benjamin lavorò a più riprese tra il 1927 e il 1940 senza mai concluderla, leggiamo:

Le esposizioni universali trasfigurano il valore di scambio delle merci; creano un ambito in cui il loro valore d’uso passa in secondo piano; inaugurano una fantasmagoria in cui l’uomo entra per lasciarsi distrarre. L’industria dei divertimenti gli facilita questo compito, sollevandolo all’altezza delle merce. Le esposizioni universali edificano l’universo delle merci.

L’uomo frequenta l’Expo per lasciarsi attraversare da ciò che l’industria del divertimento ha deciso che esperisca, rendendo la merce al tempo stesso vicina e lontana, manipolabile e meravigliosa, con il duplice effetto di far conoscere un oggetto innovativo lasciandolo lontano perché estraneo alle logiche della vita quotidiana.

Quello descritto nei Passages di Parigi, infatti, somiglia ad un carosello in cui la «fantasmagoria della cultura capitalistica raggiunge la sua più splendente realizzazione».

Il concetto di fantasmagoria  è molto interessante: deriva da phantasma, “rappresentazione illusoria”, “spettro” e agoreuein, “parlare”.

Tra fine Settecento e inizio dell’Ottocento il termine veniva usato per indicare una particolare lanterna con la quale si realizzavano degli spettacoli volutamente “gotici”: in sale al buio e su pareti completamente tappezzate di nero venivano proiettate figure mobili, accompagnate dal suono dell’armonica a vetro.

Il termine è già citato da Marx nel primo libro del Capitale affermando che ciò che rende una merce fantasmagorica (e quindi feticcio) è il fatto che le relazioni sociali tra persone che hanno presieduto alla sua produzione e allo scambio vengono trasfigurate in relazioni oggettive tra cose. Dietro la proiezione fantasmagorica del prezzo attribuito a una merce, stanno relazioni tra uomini che questa stessa proiezione occulta.

Benjamin trovò in questo concetto il termine adatto per indicare il medium auratico nel quale, a suo parere, era immersa la cultura materiale ottocentesca. Fantasmagoriche sono pertanto le esposizioni universali parigine, in esse la fantasmagoria non consisteva in una trasposizione ideologica astratta, puramente concettuale delle nuove creazioni prodotte dall’economia e dalla tecnica, ma da un’«illuminazione» concreta, che condizionava la loro presenza sensibile e che faceva sì che si manifestassero sensibilmente nel loro stesso essere fantasmagorie.

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Manifesto dell’Esposizione Universale di Liegi, 1905.

In poche parole: le Esposizioni Universali sono vere e proprie pietre miliari della storia contemporanea.

Gli obiettivi denunciati e quelli nascosti spesso andavano in direzioni molto diverse; l’impatto che ebbero sulla società fu enorme e la sensazione di chi si ritrovava a passeggiare in una Londra o in una Parigi resa quasi irriconoscibile dall’afflusso di visitatori e dalle architetture effimere che ne cambiavano il volto, oscillava, probabilmente, tra la meraviglia (da intendersi in senso greco, come sgomento), e la fascinazione per le merci, il desiderio del loro possesso.

Le Esposizioni Universali, giusto per fare un paragone con i tempi odierni, sono uno dei primi banchi di prova dei giganteschi centri commerciali che oggi frequentiamo senza più notarli, il primo passo verso l’affermazione della società dei consumi.

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