The New York Times ha pubblicato un articolo, firmato da David Wallis, dal titolo “Labels, digital included, assume new importance at Museums” che riguarda un’annosa questione per chiunque si occupi di museologia: le didascalie delle opere. Come renderle davvero efficaci?
Abbiamo tradotto per voi quest’articolo perché crediamo che oltre a contenere notizie interessanti su ciò che succede oltreoceano, possa aprire la strada anche a riflessioni sulle condizioni attuali nei nostri musei e sulle prospettive future. Enjoy!
Curatori e gorilla
Judy Rand si aggira spesso per il museo spiando i visitatori come se fosse una primatologa che osserva i gorilla nel loro ambiente naturale. Judy Rand è museum consultant a Seattle, è un’acclamata scrittrice di didascalie espositive ed è molto soddisfatta quando il suo lavoro viene letto ad alta voce dai visitatori. Quando i visitatori condividono informazioni che derivano dalle didascalie: «Stiamo raggiungendo nuovi lettori» afferma, «Perché in questo modo hanno la possibilità di discuterne tra loro e ricordare».
Lucy Harland, museum consultant a Glasgow, incoraggia i propri clienti a monitorare segretamente i borbottii dei visitatori: «Quando vedi qualcuno che borbotta ne hai la certezza»: l’etichetta ha fallito.
I musei stanno iniziando a prestare attenzione alle didascalie o “piccole ambasciatrici”, secondo le parole di Beverly Serrel, autrice di “Didascalie espositive: un approccio interpretativo”: sono gli specialisti a progettare, editare e scrivere le didascalie; molti musei organizzano gruppi di studio per testarli; molte istituzioni culturali sono passate al digitale per trasformare la didascalia in un’attrazione interattiva e avvincente.
C’è una differenza enorme con il tamburo di argilla scoperto nelle rovine del Museo Ennigaldi-Nann (odierno Iraq): il cilindro, che ha un testo redatto in tre lingue, è datato al VI secolo a.C. ed è considerato il primo oggetto dotato di didascalia della storia.
Perché Johnny non può leggere le didascalie
«Le didascalie sono sempre state un argomento importante nella pratica museologica» afferma Seb Chan, direttore della sezione Digital et emerging media presso il Cooper Hewitt Smithsoniana Design Museum. Chan cita un articolo del 1963 dal titolo “Perché Johnny non può leggere le didascalie” pubblicato in Curator: The Museum Journal. L’autore, George Weiner del Smithsonian Institution, dileggia alcuni musei definendoli “veri capolavori di crittografia” a causa delle didascalie laconiche e poco comunicative, tanto che nel gergo curatoriale vengono definite “lapidi”. Se la prende anche con le didascalie incoerenti “fatte apposta per spaventare tutti tranne i visitatori più perseveranti”.
Alcuni curatori usano le didascalie per mettere in mostra la propria erudizione (ne è un esempio l’ Hall of Fame delle Peggiori Didascalie). «È come se le etichette venissero scritte per gli specialisti e non per il pubblico» afferma Chan. La Harland è d’accordo:
«Se senti il bisogno di scrivere 50.000 parole» consiglia ai colleghi «Organizza un seminario presso la società di studi storici locale».
Durante una conferenza dal titolo “Adventures in Label Land”, Judy Rand, che ha provato a limitare le didascalie a sole 50 parole, utilizza come esempio una vecchia didascalia che descrive un meteorite, proveniente dal Field Museum di Chicago: «Con un aumento del nickel contenuto al 14% circa, la plessite prevale intera, la kemocite diventa minoritaria e la struttura diventa un’atassite ricca di nickel (vedi didascalia a destra)». Scritta per gli specialisti e non per le famiglie, la didascalia esplicativa aveva bisogno di un’altra didascalia, ma anche quella “a destra”, ricorda la Rand, era scritta utilizzando lo stesso linguaggio.
Breve? Meglio!
Le ricerche di Stephen Bitgood, insegnante di psicologia presso la Jacksonville State University in Alabama, ha dimostrato che la brevità funziona. Bitgood ha contato i visitatori che leggevano didascalie contenenti 150 parole e quelli che leggevano lo stesso testo diviso in tre pannelli da 50 parole ciascuno. Più del doppio dei visitatori leggevano i pannelli più corti. «Dividere in parti piccole un lungo testo cambia la percezione del compito, facendolo sembrare più semplice».
John Russick, direttore dei curatorial affairs al History Museum di Chicago e coordinatore della competizione annuale di scrittura di didascalie promossa dall’American Alliance of Museum (i vincitori ottengono un riconoscimento online e non un trofeo), nota un aumento della produzione di didascalie sperimentali.
Didascalie e sperimentazioni poetiche
Per accompagnare un ritratto del pittore Waldo Peirce, che somiglia un po’ a Ulysses S. Grant (ndr: generale unionista durante la Guerra di Secessione americana, 18° Presidente degli Stati Uniti), il De Young Fine Arts Museum di San Francisco ha pubblicato una poesia di Ben Erickson, un alunno di quarta:
Paint me sitting
On a wooden bench
Holding a cane
Paint me with a dull brown
Overcoat and a turquoise sweater
Paint me with a yellow hand
Resting on a wine red hat
Paint me betraying
No emotion.
Questo uccello sa cosa le donne vogliono
Lo scrittore Joseph Dresch e l’editore Eugene Dillenburg del Museum of Natural History dell’Università del Michigan, era tra i vincitori dell’anno scorso per una raccolta di intelligenti didascalie circa “The Secrets Life of Birds”, una mostra recente. Le etichette consegnano approfondimenti circa le anatre selvatiche, Martin Pescatori e altri uccelli. La didascalia per la quaglia dal titolo “Questo uccello sa cosa le donne vogliono”– rivela l’attitudine del maschio di “attrarre la partner con un’offerta di cibo veloce. Chiamato Tidbitting, il rituale è un segno distintivo della specie, e di solito vince il maschio più veloce nell’offerta”.
Didascalie ed esperimenti fallimentari
Il direttore Chan del Cooper Hewitt ha precedentmente lavorato presso il Powerhouse Museum a Sidney, uno dei primi a installare i Quick Response code sulle didascalie, un’iniziativa che permetteva ai ivisitatori di accedere ad un archivio di informazioni tramite il proprio smartphone: «È stato un esperimento fallimentare» afferma Chan, «I QRcode richiedevano il download di un’app e molti visitatori non volevano farlo».
Imparando da questo errore, Mr Chan e il suo team del Cooper Hewitt hanno progettato il “The label whisperer”, un software che consente ai visitatori di scattare una foto della didascalia, mandarla per mail e ricevere i dati di quello specifico oggetto della collezione.
I visitatori del Cooper Hewitt, che ha riaperto lo scorso dicembre dopo un rinnovo durato quasi tre anni, saranno in grado di prendere in prestito una penna, simile ad una stilografica, che interagisce con la tecnologia Near-Field Communication incorporata nella didascalia: «Dietro ogni didascalia c’è un N.F.C. Tag» ha spiegato Chan, «Che permette di radunare oggetti mentre si passeggia dentro il museo, permettendo anche un loro ulteriore approfondimento grazie a dei tavoli interattivi».
Didascalie digitali: un esperimento riuscito
Alcuni direttori dei musei vedono le didascalie tradizionali come intrusive e non avrebbero obiezioni alla celebrazione del funerale di quelle che abbiamo chiamato “lapidi” poco sopra.
Nel 2013, il Worcester Art Museum in Massachussetts, ha organizzato una mostra di dipinti di grandi maestri priva di didascalie. Il museo aveva organizzato delle postazioni iPad che permettevano focus specifici sui dipinti e permetteva di stampare le linee guida essenziali dell’opera, quali il nome dell’artista, il titolo e la data di acquisizione. I mediatori culturali e le guide sopperivano alla mancanza di etichette, dando spiegazioni e incentivando lo scambio con i visitatori.
«L’obiettivo finale della rimozione delle didascalie è la creazione di una più profonda esperienza del museo» afferma il direttore Matthias Weschek, «Vogliamo che i visitatori rallentino e sperimentino l’arte alle proprie condizioni». La digitalizzazione del museo, ha aggiunto, significa che il panorama delle didascalie «Potrebbe cambiare molto più radicalmente di quanto molti di noi non osino pensare».
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