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Expo2015: il cibo nell’arte contemporanea

Prosegue il nostro viaggio alla scoperta del rapporto tra arte e cibo. Dopo l’approfondimento sul tema dell’Ultima cena, oggi scopriremo in quali opere e per quali artisti il cibo è stato catalizzatore di memorie personali.

Filippo Tommaso Marinetti, già nel 1930, rivolgendosi ai consumatori di pasta li incitava a tentare inediti abbinamenti: bocconi “simultaneisti” e cangianti che avrebbero dovuto contenere almeno dieci sapori da gustare in pochi attimi. Questi bocconi ebbero per la cucina futurista la funzione “immensificante” che le immagini avevano per la letteratura. Un boccone può riassumere, secondo quest’ottica, un’intera zona di vita o solo una sua piccola parte, lo svolgersi di una passione amorosa o il racconto di un viaggio in estremo Oriente.

Da allora molti artisti hanno utilizzato alimenti per stimolare sensazioni, evocare memorie, produrre riti di condivisione e creare nuove visioni.

Daniel Spoerri, il cibo senza data di scadenza

Dal 1961 l’artista Daniel Spoerri prese parte allo sviluppo della corrente artistica della Eat Art, nella quale il soggetto o il medium privilegiato della rappresentazione era proprio il cibo. Trasformò una drogheria in galleria, nella quale si poteva acquistare del cibo che riportava l’etichettatura “Attenzione! Opera d’Arte”.

Nelle sue opere principali, Spoerri fissa su delle tavole, mediante l’utilizzo di particolari resine, piatti, stoviglie, resti organici di pasti preparati, consumati nei suoi ristoranti temporanei, tra i quali ricordiamo il Bistrot di S. Marta realizzato presso Fondazione Mudima di Milano. Alcuni anni dopo apriva il ristorante Spoerri, i cui protagonisti erano piatti bizzarri come ragù di pitone, bistecca di proboscide, formiche alla griglia.

Assemblage, cibo nell'arte
D. Spoerri, Assemblage, 1992.

Il cioccolato: il cibo nell’arte

Il cioccolato regna nell’opera Suzanne del 1970, del pittore, architetto e commediografo Vettor Pisani, così come sono da ricordare i busti autoritratto di Dieter Roth. Le sue Self Tower in cioccolato sono costituite da 2000 busti-autoritratto per un peso di 4 tonnellate (più un’analoga torre in zucchero) e sono state esposte presso la mostra all’Hangar Bicocca di Milano dal novembre 2013 al febbraio 2014.

D. Roth, Self Tower
D. Roth, Self Tower, 1994 – 2013.

Ulteriore pezzo della mostra, l’opera Coquille Gnomes che consisteva in nove blocchi di cioccolato all’interno dei quali è letteralmente affogato uno gnomo da giardino, di cui si intravede unicamente la punta del cappello. Queste opere scultoree sono state realizzate anche grazie alla partecipazione dell’azienda NOVI, che ha messo a disposizione 4000 kg di cioccolato extra fondente di buona qualità, rendendo concreta una collaborazione tra uno dei massimi rappresentanti dell’industria dolciaria e il mondo dell’arte.

 

“Prendete e mangiatene tutti”

Da sempre l’artista concettuale Gonzales-Torres si è distinto per le sue installazioni semplici ma dal significato importante, che prevedono un ampio uso del cibo. Era un cumulo di caramelle quello che costituiva l’opera Untitled (Portrait of Ross in L.A.) del 1991, metafora del processo di morte per Aids del compagno dell’artista. Invitando il pubblico a mangiare le caramelle, Gonzales-Torres rende quest’ultimo parte del processo metaforico di dissoluzione e di annientamento del compagno Ross, così come la malattia stava annientando il suo corpo.

il cibo nell'arte
F. Gonzales-Torres, Untitled (Portrait of Ross in L.A.), 1991.

Commistione volontaria di arte e business gastronomico è quella creata da Douglas Gordon e Jonathan Monk, i quali si trasformano in barman negli opening delle loro mostre ricostruendo di volta in volta il Friend Electric Bar, struttura funzionale e al contempo installazione che si sposta insieme ai suoi autori e alle loro esposizioni. I due artisti accolgono il pubblico con coktail-opere di loro invenzione che tanto fanno ripensare al ricettario Fluxus, come ad esempio Black Velvet (mezzo Champagne e mezzo birra scura).

Non solo nel contenuto comune, legato al cibo, ma anche nella “scatola” esteriore, il legame tra l’arte e il luogo in cui riunirsi per rifocillarsi risulta forte da tempo. Per proporre esempi recenti è bene ricordare come molti ristoranti di grido siano progettati da e con artisti: prendiamo il caso del bar caffetteria della Biennale, realizzato da Tobias Rehberger, o del bookshop di Rirkrit Tiravanija.

Rehberger è un artista tedesco nato nel 1966 che porta avanti sin dagli anni Novanta un lavoro che erode le barriere tra discipline diverse come arte, architettura e design, realizzando installazioni in collaborazione con diverse categorie di lavoratori ma anche con il pubblico-utente. Punta alla creazione di ambienti da vivere, spazi che acquistano significato solo attraverso la presenza e l’azione di chi li occupa, e il cui intento primario è quello di dare vita a micro-comunità temporanee, promuovendo azioni e situazioni di massima convivialità nell’ottica di un’arte modellata sul bisogno di un contatto autentico con il pubblico.

Rirkrit Tiravanija è nato a Buenos Aires nel 1961 da genitori di origini thailandesi ed è uno dei maggiori esponenti della corrente nota come estetica relazionale. Nelle sue opere è alla continua ricerca di forme di condivisione, incontro e interazione con il pubblico, sono infatti molto note le sue performance che consistono nel cucinare per il proprio pubblico piatti di origine thailandese, all’interno degli spazi dei musei che lo ospitano, finendo poi con il consumare insieme ai visitatori il cibo,proponendo una fusione totale tra arte e vita.

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